Una delle tematiche fiscali tra le più spinose riguarda la determinazione e la tassazione indiretta del valore dell’avviamento in caso di cessione di azienda o ramo d’azienda.
E’ noto che la determinazione dell’avviamento, inteso come la capacità dell’impresa di produrre nel tempo un sovraprofitto, rappresenta un procedimento assai scivoloso.
Da una parte l’avviamento è collegato alla situazione “potenziale”, ma comunque attuale e ripetibile nel tempo, dell’impresa e dall’altra l’utilizzo dei differenti metodi di determinazione (patrimoniali, reddituali, misti o finanziari), che la scuola aziendalistica ha elaborato nel tempo, non è altro che un modo di valorizzare, quanto più oggettivamente possibile, le potenzialità economiche di quell’attività.
Queste costituiscono materia imponibile nel momento in cui si verifichi il passaggio proprietario dell’azienda, o di parte di essa.
Tra l’altro, la scelta di un metodo piuttosto di un altro va vista proprio nella necessità di raffinare lo strumento di indagine in relazione all’oggetto di verifica: valutare in modo appropriato il valore di una società di assicurazione richiede metodologie differenti rispetto a quanto necessario per una acciaieria.
Sotto un altro aspetto, l’art. 52 del D.p.r. 131/86, posto a presidio della rettifica del valore delle aziende ai fini dell’imposta di registro, è solitamente applicato dagli Uffici secondo logiche ricostruttive del valore venale, che fanno riferimento a criteri caratterizzati da un forte elemento semplificatorio, ma, tutto sommato, efficace e comodo ai fini recuperatori.
Lo scopo di questo contributo è quello di analizzare un caso concreto di rettifica del valore dell’avviamento aziendale, al fine di fornire alcune idee e spunti operativi utili per l’opposizione all’approccio sostanzialistico degli Uffici.
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